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Il meraviglioso mondo dell'Ikebana - The wonderful world of Ikebana - Le monde merveilleux de l'Ikebana

Monthly Archives: Febbraio 2023

60 origine delle scelte e associazioni dei vegetali nell’ikebana

 

La stagionalizzazione della Natura, descritta nell’articolo precedente n°59, assieme alle religioni e filosofie del tempo, ha influenzato la scelta ed associazione dei vegetali nelle composizioni ikebana.

Con l’apparire della classe dei samurai in epoca Kamakura (1185-1333) e Muromachi (1336-1573), la Corte imperiale perde il potere politico ma mantiene la supremazia culturale; si forma una Nobiltà nella classe dei samurai che però mantiene come riferimento la cultura della Corte imperiale pur aggiungendovi del proprio ( la Cerimonia del Tè e l’ikenana sono nati in seno -o col patrocinio-  alla classe dei samurai )

I vegetali preferiti dalla Nobiltà imperiale erano i sempreverde (cari allo shintoismo) e i rami fioriti, usati nei giardini (vedi articolo precedente) e questa preferenza fu assimilata dalla nobiltà shogunale e trasferita nelll’ikebana.

 

 

Nelle prime forme di ikebana codificate, i Tatebana, come pure nei primi Rikka, tutti i rami principali (da cui derivano i tre rami principali  shushi, fukushi e kyakushi della scuola Ohara) erano esclusivamente rami di sempreverde o rami fioriti mentre foglie o fiori potevano essere inseriti nel “corpo” della composizione, al suo centro come disegno a lato.

 

struttura di base del rikka con i 7 rami principali

 

Foglie o fiori erano aggiunti ai rami principali solo come ausiliari e inseriti nel “corpo” della composizione, al suo centro, come nel disegno a lato in cui questi sono posti come ausiliari all’interno del Rikka i cui elementi principali sono solo rami, fioriti o sempreverdi.

 

shōka/seika con solo 3 rami principali

 

Nel periodi Edo (1603-1868) la classe dei samurai mantiene ancora la supremazia politica e culturale ma viene “affiancata” dalla nascente classe dei mercanti/artigiani che non ha nessun potere politico ma ha il potere dei soldi e si sta creando una propria cultura specifica: i rikka continuano anche in questo periodo storico ad essere esposti nelle situazioni formali sia della Corte shogunale che imperiale ma risultano troppo complicati per la classe nascente dei commercianti/artigiani che preferisce una sua versione semplificata ossia gli shōka e seika che mantengono solo tre rami principali dei sette o nove presenti nei Rikka, e sono composizioni che possono essere eseguite anche da un competente allievo, contrariamente al rikka, eseguibile solo da persone molto specializzate.

 

 

particolare di disegno di un giardino cittadino allegato a un castello

 

In questo periodo appaiono anche i primi giardini della borghesia cittadina, imitati anche dai samurai:  i daymiō devono abitare ad Edo causa il -soggiorno obbligatorio- (sankinkotai) loro imposto dallo shōgun e le due culture (quella dei cittadini comuni e dei samurai) si combinano;  ai rami fioriti, preferiti con i sempreverde, usati dalla Nobiltà, si aggiungono i fiori erbacei che vengono coltivati nei giardini cittadini sia della borghesia che dai samurai.

 

 

Anche nell’ikebana si vede questa trasformazione e dagli shōka/seika iniziali in cui si usano solo rami si passa a delle composizioni in cui per il kyakushi (della scuola Ohara) si usano dei fiori erbacei.

 

 

per arrivare verso la fine del periodo Edo ad usare anche solo fiori erbacei in tutta la composizione come nei disegni a lato in cui il gruppo shushi, fukushi e kyakushi (nomi della scuola Ohara) sono composti esclusivamente da Iris.

 

Dal punto di vista dell’ikebanista è interessante capire che, partendo dalla poesia, ripresi dalla letteratura, ripresi in seguito dai pittori di paraventi e kakemono, ripresi dagli artisti che producevano netsuke, disegni di kimono ed altri manufatti d’uso comune, la stagionalizzazione della vegetazione influenzò anche l’ikebana quando nacque nel 15° secolo per cui la scelta dei vegetali e le loro associazioni non furono create ex-novo dai maestri d’ikebana ma furono prese dalla cultura già esistente: queste scelte ed associazioni dei vegetali furono imposte dalle Scuole fino alla fine del periodo Edo (1868) ossia non esisteva la libertà di scegliere ed associare i vegetali ma si dovevano seguire le scelte tradizionali codificate di ogni Scuola.

La Scuola Ohara è stata la prima a dare la libertà di scelta dei vegetali per i Moribana ed Heika, mantenendo le scelte ed associazioni tradizionali solo nei Paesaggi Tradizionali, nei Moribana Tradizionali di Colore, nel Rimpa e nel Bunjin.

 

 

Interessante evidenziare che, anche se attualmente si usano rami e/o fiori, l’abitudine di utilizzare solo rami per gli elementi principali della composizione è rimasta nei nomi usati da alcune Scuole : per la Scuola Ohara i tre elementi principali si chiamano shushi, fukushi e kyakushi in cui il kanji shi, comune a tutti e tre i nomi, significa ramo (shi nella lettura ON, eda in quella KUN) quindi anche kyakushi, che frequentemente viene tradotto con “il fiore dell’ospite” poiché attualmente per kyakushi si usano principalmente dei fiori, in realtà significa il ramo dell’ospite.

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59 stagionalizzazione della natura

 

1) origine delle scelte e associazioni dei vegetali nella poesia e sua influenza su:

2) origine delle scelte e associazioni dei vegetali nell’ikebana (articolo n° 60)

nell’ikebana, sin dalle sue origine nel 15° secolo, scelte e associazioni dei vegetali da usare nelle composizioni non sono state ideate ex novo dalle Scuole d’ikebana ma prese dalla cultura già esistente.

Questa conoscenza dei vegetali traeva origine soprattutto dalla poesia ossia preferenze, scelte, associazioni dei vegetali ripetevano quelle descritte nelle poesie e nei racconti (che a loro volta citavano pure delle poesie).

Queste poesie sono state scritte da aristocratici colti che vivevano nelle capitali Nara e Heian  (attuale Kyoto) che erano  raramente a contatto diretto con il mondo rurale perciò la natura era da loro idealizzata; con queste poesie si è formato un vocabolario e una codificazione della natura associati in modo specifico alle stagioni.

 

Le due raccolte di poesie principali sono:

il MAN.YŌ-SHŪ (Collezione di diecimila foglie), apparso nel periodo Nara (710 – 784), che contiene 4516 poesie con 1600 citazioni di nomi di piante e anche

il KOKIN WAKA SHU (Raccolta di poesie giapponesi antiche e moderne), apparso nel periodo Heian (794-1185),  che contiene 1111 poesie con molte citazioni di nomi di vegetali. In ambedue le raccolte, circa il 20% delle poesie è scritto da donne.

La conoscenza di moltissime poesie presenti in questi due testi ( e in altri apparsi dopo ) era parte essenziale della cultura della Nobiltà imperiale e, in seguito, shogunale, sia maschile che femminile, e riferimenti alle poesie erano frequentissimi negli scambi epistolari e nei discorsi quotidianità. Nel periodo Edo, questa conoscenza era essenziale anche per la classe della ricca borghesia delle città (chŌnin)

Vari giochi di società della Nobiltà erano basati sulla conoscenza di un gran numero di poesie:

 

 

ad esempio quello dei Kai-awase, in cui le due valve di conchiglie, al cui interno erano scritti versi di poesie su una valva e loro autori o poesia completa nella sua gemella, dovevano essere appaiate.

 

 

geishe che giocano al Kai-awase, periodo Edo: le conchiglie erano poste sul tatami con il lato concavo verso il basso; il gioco consiste nel sollevare una valva e, riconosciuta la poesia o l’autore, ricordarsi dov’era l’altra valva, magari sollevata in precedenza e riposta, combaciante sia nella forma che nel contenuto poetico

 

 

Le scatole contenevano 360 paia di conchigli dunque chi giocava doveva conoscere a memoria almeno 360 poesie. Per tradizione, questi giochi venivano regalati alle spose poiché le conchiglie alludevano alla fedeltà coniugale (fedeltà obbligatoria solo per la moglie), potendo ogni valva combaciare solo con un unica altra valva ossia quella da cui è stata separata inizialmente. Nel periodo Edo si introdusse la variante in cui, al posto delle poesie e loro autori, si disegnavano dei fiori o scene di racconti tradizionali che dovevano essere appaiati.

 

 

Dopo l’introduzione delle carte da gioco da parte dei Portoghesi, diventò di moda lo stesso gioco d’associazione di poesie e loro autori/autrici nel gioco dei karuta-awase. Di solito ci sono 100 poesie, di autori differenti da quelli presenti nel Kai-awase.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

parte di un paravento di Tosa Mitsuoki (1617-1691)

 

 

paraventi di Sakai Hoitsu (1771-1828)

 

 

Fra la Nobiltà del periodo Heian c’era la moda di scrivere poesie e poi di appenderle agli alberi e questa usanza la si ritrova nei disegnati sui paraventi che contengono poesie di famosi poeti sia del MAN.YŌ-SHŪ che del KOKIN WAKA shu.

 

 Nelle poesie si è cominciato a preferire la citazione di certi vegetali rispetto ad altri probabilmente anche grazie al fatto che nella lingua giapponese esistono molti omofoni ossia kanji che si scrivono in modo differente ed hanno un significato differente ma hanno lo stesso suono (vedi art. 50°).

Ad esempio il PINO si legge MATSU che è omofono di ASPETTARE per cui, probabilmente, nelle poesie il pino venne più usato rispetto ad altri nomi di piante poiché si poteva sottintendere l’aspettare, ad esempio, la persona amata.
Altro esempio è il LOTO che si legge REN con i suoi kanji omofoni, interessanti da usare nelle poesie, che significano AMARE, COMPATIRE, TENERE A QUALCUNO.
Per queste ed altre ragioni, nella cultura del periodo Nara ed Heian, si cominciò a STAGIONALIZZARE la Natura ossia ciò che era presente nella realtà tutto l’anno o in varie stagioni (come uccelli, vegetali, animali) venne citato solo associato ad una stagione specifica di cui ne divenne il simbolo e si arrivò a stagionalizzare persino i “luoghi famosi” (località molto conosciute e visitate, riprodotte anche sui paraventi) rappresentandoli solo in specifiche stagioni, di solito primavera ed autunno. Anche la pittura religiosa fu stagionalizzata mostrando, ad esempio, Buddha in una data stagione simboleggiata da foglie rosse in autunno, ciliegi in fiore primaverili, le sette erbe autunnali o il pino in inverno.
La poesia di Dōgen  esemplifica questa stagionalizzazione:
la luna piena, in modo speciale quella dell’ottavo mese nel vecchio calendario lunare (corrisponde al nostro settembre), già nella Poesia cinese veniva ritenuta la più bella e, benché la luna piena appaia ogni mese, questa fu stagionalizzata con l’autunno, ossia citata prevalentemente con l’autunno.
In questi quattro kakemono di Mochizuki Gyokuse (1834-1913) intitolati  luna nelle quattro stagioni la luna piena è rappresentata solo in Autunno
 
  
Se si considera l’Autunno,
fra le molteplici poesie, questa di anonimo è abbastanza tipica poiché, oltre alla luna d’autunno, cita (il ritorno del)le oche selvatiche, anche loro stagionalizzate con l’autunno. Stessa stagionalizzazione nel disegno in cui la luna piena autunnale fa da sfondo all’oca selvatica che vola sopra alcune erbe autunnali.
 
Anche alcuni insetti furono stagionalizzati come, ad esempio, il grillo citato prevalentemete in autunno, benché sia presente in altre stagioni.
Pure i sentimenti furono stagionalizzati: ad esempio la tristezza, che può essere percepita in qualsiasi stagione, è stata associata all’autunno probabilmente poiché AKI = AUTUNNO ha un omofono che significa STANCHEZZA
 
 
 
 
 
Anche degli animali furono stagionalizzati: ad esempio i cervi, presenti tutto l’anno, furono associati all’autunno, come in questa poesia che cita i tipici soggetti autunnali dalla luna, sottinteso piena, alla tristezza (il cervo si lamenta).
Il monte Ogura, citato con gli altri temi autunnali, è uno dei “luoghi famosi” pure loro stagionalizzati: questo monte, ovviemente presente tutto l’anno, viene prevalentemente descritto in autunno e non nelle altre stagioni.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

disegno con i tipici riferimenti all’autunno: rami di acero, luna piena e cervi

Altro esempio di stagionalizzazione autunnale di luoghi famosi è il fiume Tatsuta, citato in varie poesie ed associato alle foglie rosse autunnali, di solito dell’ acero, che trasporta a valle formando un broccato rosso sulla superficie dell’acqua;
tema che ritroviamo nel disegni come quello di Hokusai (1760–1849) in cui gli aceri sono visibili lontano sulle montagne che fanno da sfondo al disegno e le cui fogli vengono trasportate dalla corrente verso il suo estuario ove formeranno un broccato rosso citato in varie poesie come:
 

 

Stagionalizzazione del fiume Tatsuta, associato alle foglie autunnali dell’acero, che ritroviamo in questo piatto di anonimo e nei due piattini di Ogata Kenzan (1663–1743) in cui sono dipinti mulinelli ed onde del fiume Tatsuta che trasportano le foglie di acero.

Per quale ragione ci fu questa stagionalizzazione?

 

Fra altre probabili cause c’è il fatto che la Nobiltà, nel periodo Nara ed Heian, non si muoveva dalla capitale; specialmente le donne erano quasi recluse in casa, riparate dagli sguardi estranei da vari tipi di paravento ed uscivano raramente dalla città per dei pellegrinaggi ma in questo caso erano ben nascoste nei carri trascinati da buoi.
 
Per la Nobiltà, autrice della maggior parte delle poesie dell’epoca, le uniche fonti per avere un’idea della Natura erano:
1) i giardini: ma questi, in entrambi i periodi storici, erano composti principalmete solo da acqua, rocce e alberi sempreverde e alberi da fiore.
disegno che  mostra il tipico giardino con il ruscello che da Nord si snoda verso Sud, rocce, alberi sempreverdi e alberi da fiore e un paravento con gli stessi elementi tipici: acqua, rocce, alberi sempreverde e con fiori.
2) la letteratura poetica e saggistica spiegata all’inizio di quest’articolo; l’unica fonte di “informazioni” sulla Natura, oltre ai giardini, erano le poesie e la letteratura (che a sua volta citava le poesie)
disegno d’epoca che mostra l’interno di una residenza con disegni sulle porte scorrevoli e uno scaffale con le raccolte poetiche e letterarie.
 
3) disegni sulle porte scorrevoli all’interno delle residenze che, però, a loro volta riproducevano principalmente i vegetali citati nelle poesie e nella letteratura del tempo.
 
Questa stagionalizzazione della Natura portò gli artisti pittori a disegnare dei temi ricorrenti: “fiori, alberi e uccelli delle quattro stagioni” ossia sui paraventi, porte scorrevoli o nei kakemono si disegnavano associazioni  tradizionali di questi tre soggetti con variazioni sul tema nel senso che potevano essere solo alberi e uccelli delle quattro stagioni oppure fiori e uccelli o solo alberi e fiori; le quattro stagioni potevano essere dipinte ognuna su di un singolo  paravento oppure primavera ed estate su di uno e autunno inverno sull’altro mentre nei kakemono, di solito, si disegnavano alberi, uccelli e fiori per ogni singolo mese.
 
 
due paravent “alberi, fiori e uccelli delle quattro stagioni” di  Kanō Eitoku (1543 –1590); i paraventi giapponesi “si leggono” da destra a sinistra ossia primavera e estate nel primo e autunno ed inverno nel secondo a lato (per quanto riguarda i vegetali, l’autunno è simbolizzato dall’acero rosso e l’inverno dal pino e camelia bianca)
 
 
12 kakemono disegnati da Sakai Hōitsu (1776-1828) pure della serie Alberi, fiori e uccelli delle quattro stagioni

esempio di combinazioni di colori di 6 kimono secondo la stagione

 

La stagionalizzazione della Natura ha influenzato tutte le arti fra l’altro anche la scelta dei colori e scelta dei vegetali da rappresentare sui kimono.
 
In epoca Heian le nobildonne si vestivano con una sovrapposizione di kimono (fino a 12) di colori differenti, colori basati principalmente sui vegetali la cui stagionalizzazione li aveva resi “più alla moda” rispetto ad altri.

 

 
 
schizzi preparatori per kimono
 
Anche la scelta dei motivi vegetali nei disegni dei kimono in epoca Edo era prevalentemente basata su quei fiori, alberi e erbe  che la stagionalizzazione aveva preferito rispetto ad altri.
 

 

Questa stagionalizzazione della natura, cominciata nella poesia del periodo Nara e Heian e poi estesa alla letteratura e in seguito alle arti figurative, è entrata a far parte della cultura prima solo imperiale poi assorbita dalla classe dei samurai; all’apparire dell’ikebana nel 15° sec. queste preferenze nella scelta e nelle associazioni dei vegetali, già esistenti nella cultura del tempo, furono usate nel decidere la selezione dei vegetali delle composizioni, come vedremo nel prossimo articolo.

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58 l’importanza di un punto di crescita unitario della composizione

 

Nell’ikebana, il punto d’uscita dei vegetali dal vaso è molto importante.

 

 

Alla fine dell’Ottocento, la Scuola Ohara, oltre ad introdurre le composizioni in vaso basso, ha introdotto un cambiamento epocale modificando una delle regole basilari dell’ikebana, esistente sin dalla sua nascita nel 15° secolo e che è rimasta inalterata fino alla fine del periodo Edo: si è passati da un’uscita unitaria/compatta dei vegetali dal vaso, sia alto che basso, ad un’uscita “non unitaria/distribuita su una superficie”.

Nel Moribana (composizione in vaso basso) i tre vegetali principali sono inseriti in tre punti ben distinti e lontani fra di loro, con l’inserzione dei loro ausiliari  entro il tipico triangolo scaleno da essi formato.

Prima dell’introduzione del Moribana, nelle varie composizioni come il Tatebana, Rikka, Shōka/Seika e Nageire, rami e steli che escono dai vasi alti sono in strettissimo contatto occupando solo una parte della bocca del vaso ossia presentano un’unità del punto di crescita della composizione come è visibile nei disegni sottostanti.

 

 

 

   

Tatebana 

Rikka  

Shōka/Seika  

  Nageire

 

  

Meno frequentemente si usavano già anche dei vasi bassi ma sempre con un uscita dei vegetali dal vaso molto compatta

1) nei Suna no mono, composizioni Rikka informali in vasi bassi contenenti sabbia

2) nel periodo Edo si componevano degli Shoka/Seika anche in vasi bassi ma sempre con i vegetali uscenti da un unico punto come mostra la stampa a sinistra di Hosoda Eisho (1789-1801).

 

 

 

Shoka/Seika  

  Suna no mono

 

Sia nei Suna no mono prima e poi negli Shoka/Seika, esistevano delle varianti che separavano quello che la scuola Ohara chiama il gruppo shu-fuku dal gruppo kyaku ma continuando a mantenere sia l’uscita di shu/fuku, con i loro ausiliari, che quella di kyaku, e suoi ausiliari, molto compatta come è visibile nei disegni sottostanti.

 

 

Suna no mono

Seika  

  

Lo scopo di tenere strettamente uniti i vegetali all’uscita dal vaso è che:

un punto di crescita unitariorinforza” la composizione mentre un

punto di crescita sparpagliato la “indebolisce.

 

 

 

 

 

Le composizioni a sinistra con i vegetali che occupano tutta, o buona parte, la bocca del vaso appaiono “più deboli” delle composizioni (Scuola Ikenobo) a destra.

 

Il proverbio italiano “l’unione fa la forza” è evidente nelle composizioni ikenobo in cui i vegetali che escono da un unico punto  danno alla composizione una sensazione di “forza” in contrapposizione alla sensazione  di “debolezza” data dalle composizioni a sinistra.

Anche se la Scuola Ohara ha introdotto nella storia dell’ikebana la novità del Moribana con le inserzioni dei vari vegetali distanziate, non tutte le sue composizioni seguono questo schema e molte composizioni hanno mantenuto il precedente modo in cui  gli elementi con i loro rami/gambi escono dal vaso a stretto contatto, mantenendo la compattezza alla base della composizione tipica di tutti gli stili esistenti prima dell’introduzione del Moribana.

 

 

Interessante notare che, pur essendo famosa per aver introdotto il Moribana con le inserzioni dei vegetali formanti un triangolo, la Scuola Ohara inizia l’insegnamento ai principianti con gli Hana-isho, forme di base, in cui si insiste che i vegetali devono essere inseriti nel kenzan proprio uno dietro all’altro per fare in modo che la composizione mostri un punto di uscita dal vaso unitario, compatto.

Dunque la Scuola Ohara mantiene il punto d’uscita dal vaso unitario nelle seguenti composizioni:

 

1) Hana-isho, forme di base

 

 

Nelle composizioni Ohara, frequentemente, il punto d’uscita dal vaso delle composizioni è coperta da vegetali e dunque non direttamente visibile: la verifica che il punto di partenza dei vegetali sia unitario è data dal fatto che le linee di tutti i vegetali devono convergere in un unico punto, indicato dal cerchio rosso nel disegno di destra.

  

2) Heika

 

 

questa unità dei vegetali all’uscita della bocca del vaso, anche se presente, è poco visibile poiché ci sono dei vegetali che nascondono la bocca del vaso ma è ben visibile se si guarda la stessa composizione da lato in cui è evidente l’unità del punto d’uscita dei vegetali.

 

3) Paesaggi Tradizionali in lontananza,

 

 

 

in cui il gruppo shushi/fukushi rappresenta un albero per cui tutto il gruppo è inserito in un unico anello dello shippo, in verde nell’immagine

 

 

 

 

4) Paesaggi Tradizionali a media distanza,

 

 

in cui il gruppo shushi/fukushi rappresenta un cespuglio la cui base, anche se non così compatta come il tronco dei Paesaggi in lontananza, è unitaria perciò shushi, fukushi e i loro tre ausiliari sono inseriti uno dietro all’altro nei cinque spazi dei due anelli dello shippo, in verde nel disegno.

 

Unica eccezione: quando i rami usati hanno fronde voluminose che occupano molto spazio, non si usa un unico shippo a due anelli bensì due shippo separati e posizionati abbastanza lontani in modo che i rami non si tocchino: questi due shippo contenenti uno il gruppo shu e l’altro il gruppo fuku,  con lo shippo di kyaku formano il tipico triangolo scaleno del Moribana, come nei Paesaggi Tradizionali ravvicinati.

 


 

Nei Paesaggi Tradizionali in prospettiva ravvicinata, in cui vengono usati erbe e fiori che in Natura crescono sparpagliati, i vegetali non escono uniti dal vaso come nei Paesaggi -in lontananza- o -a media distanza-, ma seguono le regole canoniche del Moribana perciò shushi, fukushi e kyakushi sono inseriti in tre shippo differenti e formanti un triangolo scaleno, più o meno distanziati a  seconda del tipo di vegetali usati nella composizione.

 

 

visione laterale di un Paesaggio ravvicinato   con il gruppo shu e fuku inseriti in due shippo differenti; il terzo shippo, per ora vuoto, conterrà i vegetali del gruppo kyaku

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57 vasi raku

 

La ceramica raku è stata introdotta nel Cha-no-yu da Sen-no-Rikyu nel 1582 con l’uso delle tazze raku, nere o rosse.

 

Rikyu era uno dei cinque Maestri della -Cerimonia del tè- al servizio di Toyotomi Hideyoshi, secondo unificatore del Giappone, e praticava sia la cerimonia del tè “stile palazzo” per i daimyo, in cui si ostentava il potere di Hideyoshi, sia il Wabi-cha, modo d’eseguire la Cerimonia del tè influenzato dallo Zen.,

 

A un vasaio di Kyoto, d’origine coreana e di nome Chōjirō, che costruiva le tegole per il nuovo castello (chiamato  Juraku-tei o Juraku-dai) di Hideyoshi, Rikyu diede istruzioni per creare delle tazze che Chōjirō fece di color nero o rosso, costruite non usando il tornio, com’era consuetudine allora per le tazze da tè, ma usando le sole mani e con un procedimento di cottura particolare che verrà in seguito chiamato raku. Queste tazze avevano le stesse caratteristiche wabi/sabi del Cha-no-yu di Rikyu.

 

 

 

 

ai lati due tazze originali di Chōjirō conservate nel museo della famiglia Raku a Kyoto

 

Queste nuove tazze usate da Sen-no-Rikyu nel Wabi-cha piaquero a Hideyoshi: secondo la leggenda Hideyoshi diede a Chōjirō il nome Raku, che significa “piacere, gioia”, prendendo un kanji dal nome del suo castello di Kyoto chiamato Juraku no Tei 聚楽第 ; nel castello Rikyu aveva fatto costruire una semplice Capanna adibita alla Cerimonia del Tè tipo Wabi-cha in cui si usavano le tazze create da Chōjirō .

La tecnica di cottura raku venne ripresa e modificata dagli americani dopo la seconda guerra mondiale per poi essere “esportata” in Europa ed oggi è usata per creare qualsiasi tipo di vaso.

 

Per un ikebanista, il poter creare dei vasi raku per le proprie composizioni è molto appagante poiché sul mercato non esistono vasi adatti all’ikebana: questi devono avere determinate forme e non devono attirare l’attenzione più della composizione stessa, ciò che succede invece con i vasi raku creati da artisti-ceramisti che non conoscono l’ikebana.

 

Inoltre lo sfornare i vasi raku, che avviene all’aperto quando questi sono ancora incandescenti, se fatto nell’oscurità della notte diventa un “rito magico” in cui si usano gli elementi fuoco (vaso incandescente), acqua (che viene gettata sull’oggetto incandescente per un rapido raffreddamento), aria (che viene soffiata sul vaso usando una canna sia per facilitare la riduzione dei colori che per accellerare il raffreddamento) e terra (sia l’argilla del vaso stesso che la terra su cui si posa direttamente il vaso incandescente ricoprendolo con della segatura –legno- che, prendendo fuoco, emette il fumo che penetra ed evidenzia le tipiche fessure  nello smalto create dal rapido raffreddamento).

 

 

Ecco alcune foto scattate durante l’estrazione di un vaso nell’oscurità notturna con il vento che gioca coi lapilli di segatura; il vaso, dopo la procedura appena spiegata, è stato posto su di un tavolo per togliere i resti di segatura per poi essere ulteriormente raffreddato e pulito. L’ultima foto mostra un vaso da ikebana raku, non quello delle foto precedenti, con una composizione.

 

 

 

 

 

 

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56 i sei kaki di Mu Qi

 

Mu Qi (1210-1275) o Mu Chi, monaco cinese (chiamato Mokkei in Giappone), è uno dei massimi esponenti della scuola di pittura cinese Chan molto amato dagli shogun Ashikaga  ed è l’autore del dipinto qui sotto in inchiostro nero e blu su carta, conservato ora nel Daitoku-ji a Kyoto, intitolato: sei kaki

 

 

di cui uno al centro, color nero, contornato da tre kaki color grigio, con altri due kaki più esterni color bianco ossia, considerando la composizione di kaki nel suo insieme, da un centro scuro/nero si passa a una zona intermedia grigia per arrivare alla periferia chiara/bianca

 

Il decalare dei colori dal kaki al centro nero passando ai tre kaki grigi per arrivare ai due kaki bianchi alla periferia simboleggia le regole della Natura, care al Taoismo, riguardante la crescita dei vegetali, regole che possono essere espresse utilizzando dei concetti equivalenti dicendo che il centro del disegno è:

 

nero oppure scuro, pesante, vecchio o aperto se fiori ,  denso/folto

 

in contrapposizione alla periferia caratterizzata dai termini opposti:

 

bianco oppure chiaro, leggero, giovane o chiuso se fiori,

 

rado/diradato

 

mentre ciò che si trova fra centro e parte esterna del dipinto è caratterizzato da termini di transizione fra nero-bianco, pesante-leggero, vecchio-giovane,…….. ecc.

 

 

 

 

 

queste caratteristiche sono visibili, ad esempio, in questo cespuglio il cui centro è più folto, denso, “scuro”, “otticamente pesante”, rispetto alla sua periferia che è diradata, “chiara”, “otticamente leggera”; nel centro del cespuglio i fiori si sono aperti prima di quelli periferici e dunque sono più “vecchi” e a stadio di apertura più avanzato, ossia più aperti, rispetto a quelli della periferia “giovani” e ancora chiusi.

 

 

 

 

 

Lo stesso concetto di colore che da scuro al centro diventa chiaro alla periferia, espresso nel dipinto dei kaki, lo troviamo nella disposizione del cibo con l’elemento più scuro al centro e in questi due disegni con cani e conigli di Maruma Okyo (1733-1795).

 

 

 

 

 

Le composizioni ikebana, sin dalle sue prime forme codificate Tatebana/Rikka, sono state costruite rispettando queste regole visibili nella Natura e il riferirsi al disegno dei sei kaki di Mu Qi da parte dell’ikebanista Ohara lo aiuta nel prendere delle decisioni mentre compone un ikebana poiché i concetti espressi nel disegno dei kaki li ritroviamo frequentemente ancora oggi nelle regole compositive degli stili legati alla tradizione (ma occasionalmente anche a quelli legati al presente).

 

scuro al centro, chiaro alla periferia

 

– La Fascia di Colore nei Moribana, essendo al centro della composizione, è di un colore più scuro rispetto ai gruppi shu-fuku e kyaku ai suoi lati

 

 

 

 

 

 

nei due Moribana la -Fascia di Colore- al centro della composizione è più scura del gruppo shu-fuku e gruppo kyaku, gruppi alla periferia della composizione.

 

 

Anche in questo Hana-isho, stile Allineato, il fiori shushi con i suoi ausiliari al centro della composizione è più scuro rispetto ai fiori dei gruppi (periferici nella composizione) fukushi e kyakushi.

 

   

 

 

La regola scuro al centro, chiaro alla periferia non è applicata quando uno dei due gruppi principali  (shu-fuku o kyaku) è di un colore scuro: in questo caso la Fascia di Colore sarà di un colore chiaro come in questi due  esempi

 

Il ricordare la disposizione dei kaki di Mu Qi aiuta l’ikebanista anche quando deve decidere come disporre il fiore kyakushi e i suoi ausiliari alto e basso:

 

vecchio al centro, giovane alla periferia oppure

aperto al centro, chiuso alla periferia

 

– nel gruppo kyaku, fiori più “vecchi” al centro della composizione, fiori più “giovani” alla sua periferia

 

  

  

 

 

sia nel disegno che nelle tre composizioni, il fiore più “vecchio”, aperto è al centro della composizione mentre il fiore più “giovane”, ancora semi-chiuso è alla sua periferia: nell’Hana-isho di base, kyaku è al centro, dunque usa una rosa “vecchia”, aperta e la rosa suo Ausiliare periferica dev’essere più “giovane”, ancora semi-chiusa.

 

Nei Moribana con Fascia di Colore il fiore lilium più “vecchio” è al centro mentre il secondo lilium più periferico è ancora chiuso; nel secondo moribana con la sanseveria, fra le tre rose che formano il gruppo kyaku il fiore “vecchio” è l’Ausiliare basso fiore -più centrale-, il fiore più “giovane” è l’Ausiliare alto fiore -più periferico- e quello mediamente aperto è il fiore kyaku -posizionato fra centro (A. basso)  e periferia (A. alto).

 

 

 

L’uso di fiori a differenti stadi di apertura è l’evidenziare la transitorietà, cara al Buddhismo ma i fiori a differente stadio di apertura non sono posizionati a caso bensì seguono lo schema esemplificato dai -sei kaki di Mu Qi- ossia, se consideriamo tre fiori (kyaku, suo ausiliare alto e suo ausiliare basso), il più aperto al centro -ausiliare basso-, il più chiuso alla periferia della composizione -ausiliare alto- e quello semi-aperto -kyaku- fra i due.

 

“grosso” al centro, “piccolo” alla periferia

 

 

– in Occidente, se si comperano dei fiori, questi sono di solito tutti  allo stesso stadio di sviluppo e quindi non si può mostrare la    transitorietà inserendo nella composizione dei fiori a vari stadi di apertura; in questo caso useremo dei fiori di grandezza differente ossia il più grande al centro quale A. basso , il più piccolo alla periferia quale A.Alto e quello medio fra i due quale kyaku.

 

 

in questo Moribana i fiori kyaku e suoi ausiliari sono “adulti” (a giudicare dalle foglie) e, seguendo la regola, l’ausiliare-basso-fiore (essendo al centro della composizione) è il più “grosso”, l’ausiliare-alto-fiore (alla periferia della composizione) è il più “piccolo” mentre il fiore kyaku (fra il centro e la periferia) è quello di “media grandezza”.

Contrariamente alla Decorazione Floreale Occidentale che metterebbe il fiore più “bello” nel punto più importante, ossia Kyaku, la tendenza attuale della Scuola Ohara è questa.

 

 

in questo Moribana con Fascia di Colore è visibile l’applicazione della “regola dei kaki di Mu Qi”Occhiolinosia nel colore più scuro  della Fascia di Colore (al centro) rispetto ai colori più chiari dei gruppi shu/fuku e kyaku (alla periferia) ma anche nella scelta della grandezza dei fiori nella Fascia di Colore stessa,  fiore più aperto nella posizione più vicina al centro della composizione e quello più chiuso alla periferia.

 

 

 

Quando si usano 5 fiori nella Fascia di Colore, questi vengono assemblati in due gruppi di 2 + 3 fiori (vedi art.62):

 

  il gruppo più vicino al centro della composizione (indipendentemente se formato da 2 o 3 fiori) è più “pesante, folto, denso” rispetto al gruppo più distante dal centro della composizione nel quale i fiori sono disposti più “leggeri, diradati, spaziati”.

 

La “regola dei kaki di Mu Qi” è applicata non solo per il colore più scuro della Fascia di Colore rispetto all’intera composizione (colore più scuro al centro con le celosie rosse nella foto a destra, ma colore più chiaro con i garofani poiché gli amaryllis sono già di colore scuro) ma anche all’interno della Fascia stessa per cui il gruppo di fiori più vicino al centro della composizione è “più compatto, coi fiori più vicini fra di loro” rispetto al gruppo di fiori più distante dal centro della composizione che appare “più leggero” poiché i fiori sono più distanti fra di loro, più spaziati,

 

– folto al centro, diradato alla periferia

 

 

in generale il centro delle composizioni è relativamente folto rispetto alla sua periferia: in questo Hana-isho, stile radiale, visto da più lati e in questo heika stile Obliquo, come in tutti gli altri esempi precedenti, il centro della composizione è “folto”, compatto, “pesante” mentre la periferia è “diradata”, ariosa, “leggera”,

 

 

 

 

Esempio che non segue i concetti esposti in questo articolo: il fiore più “grosso”/vecchio non è l’Ausiliare basso ma kyaku mentre quello “di media grandezza” è l’Ausilare basso, impostazione scelta probabilmente causa il volume dei singoli fiori in rapporto al vaso e all’intera composizione.

 

anche in questo articolo, come in tutti gli altri, le fotografie di ikebana Ohara sono copyright della Scuola Ohara.

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55 ikebana kadō

Ikebana, arte tradizionale e percorso etico

di MARIA TERESA GUGLIELMETTI

Nella cultura giapponese, il termine Geijutsu, arte, comprende anche le arti tradizionali Dentōgeinō: la danza, il canto, la musica, il teatro (1), la letteratura, la pittura, la realizzazione di giardini Zen, la ceramica, la calligrafia, l’arte della lacca, l’ikebana e la cerimonia del the. Rientrano pertanto nelle arti tradizionali anche la progettazione dei giardini ed il Chanoyu (2) che, secondo i parametri della cultura occidentale, appartengono ad un ambito diverso da quello dell’arte. In Giappone non si opera neppure una distinzione tra arti maggiori e minori: un dipinto ad inchiostro, una ceramica di pregiata fattura ed un ikebana hanno uguale dignità artistica.

Da queste constatazioni nasce l’interrogativo sul denominatore comune di tutte le arti comprese nel termine Dentōgeinō composto da diversi Kanji (3): den trasmettere, to tutto insieme, nō capacità e gei, lo stesso carattere che ritroviamo in Geijutsu, che rimanda al concetto di arte. Si evidenzia così l’elemento comune alle arti definite tradizionali: la trasmissione tutto insieme ovvero il rispetto, inteso come venerazione ed osservanza degli insegnamenti dei maestri del passato.(4) Questa tradizione, custodita gelosamente e tramandata oralmente per secoli (5), affonda le sue radici nella religiosità giapponese, com’è venuta a formarsi e trasformarsi nel corso del tempo: lo Scintoismo, la religione autoctona incentrata sulla venerazione dei Kami, entità sacre presenti ovunque sia nella natura, sia nelle creazioni dell’uomo, si è intrecciato con il Buddismo, la religione d’origine indiana, giunta in Giappone nel VI° secolo d.C., dopo aver accolto in Cina contributi taoisti e confuciani.(6) Diventa così comprensibile l’inclusione del Chanoyu nelle arti tradizionali: nell’essenzialità raffinata della stanzetta del the si scandiscono con gesti ritualizzati l’unicità e l’irripetibilità di ogni istante vissuto nell’attenzione al qui ed ora, come espresso nelle parole ichigo ichie, alla lettera una vita, una volta, (7) ossia l’incontro con gli altri partecipanti e, ad un livello più sottile, quello con le percezioni sensoriali: visive, uditive, tattili, gustative e olfattive, alle quali fa appello tutto lo svolgimento del Chanoyu, è sempre nuovo di momento in momento.

 

Una precisazione è d’obbligo: il rapporto arte tradizionale e religione è difficilmente espresso e definito dai giapponesi con la chiarezza e l’oggettività che ricerchiamo in occidente, la componente religiosa si è piuttosto stemperata nell’arte divenendo, nel corso del tempo, soprattutto pratica di vita quotidiana ed artistica. Questa preferenza accordata all’attività concreta rispetto al pensiero concettualmente definibile è da collegare sia allo Scintoismo, che esalta la vitalità dell’uomo, sia al pragmatismo del Buddismo sino-giapponese, che privilegia l’attività meditativa nelle azioni quotidiane, rispetto ad elaborate concezioni dottrinali.

 

Il lettore occidentale, sia credente sia laico, per non fraintendere queste religioni deve spogliarsi della modalità, spesso inconsapevole, di considerarle secondo parametri culturali di matrice cristiana. Buddismo e Scintoismo, pur nelle differenze, pongono il fulcro della religiosità nella vita, partecipe dell’eterno divenire del ciclo cosmico: nelle azioni della quotidianità si realizzano la pienezza vitale per lo Scinto e, per il Buddismo, la liberazione dalla sofferenza. Nello Scintoismo attraverso le virtù della sincerità e della purezza del cuore-mente “kokoro”(8) nei comportamenti, tesi a realizzare e conservare una profonda armonia non solo con gli altri, ma anche con la natura ed il cosmo. Nel Buddismo con lo strumento della meditazione che conduce al distacco dall’ego ed alla liberazione dagli attaccamenti attraverso l’osservazione, priva di scelte, giudizi e pregiudizi, della realtà esterna ed interiore, tutta degna del fuoco dell’attenzione.

 

Alla visione della vita umana come un elemento tra tutti gli altri del micro e macrocosmo corrisponde un profondo legame con la natura, che si è espresso per quasi due millenni nella sintonia del popolo giapponese con le variazioni stagionali e nell’accettazione di tutte le manifestazioni naturali, anche le più drammatiche e distruttive. Prima dell’apertura dei confini nel periodo Meiji, non esisteva nella cultura giapponese il termine natura inteso come mondo materiale esterno all’uomo: “[…] come sostituti del concetto astratto di natura, erano impiegati termini concreti come ten, chi, san, sen (cielo, terra, montagna, fiume) oppure san, ka, sō, boku (montagna, fiore, erba, albero).” (9) L’uomo era una delle manifestazioni della natura al punto tale da non potersi pensare distaccato da essa.

 

Nella definizione san, ka, sō, boku compaiono tre elementi fondamentali delle composizioni d’ikebana: rami di albero, erbe e fiori. Si evidenzia così come l’origine e lo sviluppo di quest’arte siano legati intimamente ad un pensiero etico religioso in cui l’io trova la completezza di se stesso nel rapporto armonioso e di profonda sintonia con le manifestazioni del micro e macrocosmo. Significativa a questo riguardo la testimonianza del valente maestro Itō Takumi della scuola Ohara (10) che, parlando dell’ikebana ispiratogli dalla natura di Oirase, (fotografia n° 1) afferma: “Con questa composizione ho provato a realizzare la bellezza di Oirase. Se vi andate vi sentite un oggetto della natura. Immerso nella natura non ho vita autonoma, essa mi fa vivere, io sono una parte di questa natura.” (11)

 

 

 

Fotografia n° 1: Ammirare l’ombra del verde nella bellezza di Oirase

 

Se lo studio dell’ikebana comporta la comprensione delle trasformazioni della natura legate al trascorrere ciclico del tempo, la maturità nella pratica di quest’arte riflette anche la consonanza con le varie parti del giorno e con le manifestazione meteorologiche: il vento, la neve, l’umidità nella stagione delle piogge etc. come nelle composizioni del maestro Itō che riflettono la freschezza della natura di inizio estate, I fiori nell’acqua, un paesaggio al tramonto, (fotografia n°2) e Su una distesa di felci passa il vento (fotografia n° 3).

 

Fotografia n° 2 I fiori nell’acqua

 

 

Si giunge così a pulsare all’unisono con le diverse espressioni dellavegetazione naturale sia di grande respiro come boschi, vallate, montagne, sia di piccole dimensioni, ma per questo non meno commoventi nella loro delicatezza e perfezione, come erbe, fiori e cespugli del ciglio di una strada di campagna. Solo il raggiungimento di quest’armonia, che è comprensione ed approfondimento delle caratteristiche dei vegetali, consente di inserirli nella composizione rispettando la loro natura più intima e quindi anche la loro vitalità. Si realizza così appieno il significato del termine ikebana di dare nuova vita ai fiori.

 

L’immedesimazione con gli elementi vegetali genera di per sè quell’etica di rispetto della natura dalla quale è nata quest’arte e che si manifesta sia nel non rovinare la forma di alberi e cespugli cogliendo con avidità più di quanto strettamente indispensabile per la composizione, sia nel non danneggiare irreparabilmente l’ambiente naturale, anche senza giungere a compiere veri e propri delitti, (12) ma solo conducendo uno stile di vita del quale non si considerano le conseguenze.

 

All’immersione empatica nella natura, come quella dei pittori cinesi e giapponesi che nell’antichità osservavano il soggetto da dipingere fino a diventare tutt’uno con esso, conduce anche la meditazione buddista, mentre il concetto buddista dell’impermanenza trova un chiaro riscontro nella consonanza con la natura e le sue continue variazioni, presente nello Shintoismo. Questi esempi evidenziano come sia impossibile separare sempre nettamente i contributi delle due religioni.

 

 

Fotografia n° 3 Su una distesa di felci passa il vento

 

L’uso del suffisso Dō (via) nella designazione dell’ikebana Kadō, Via dei fiori (13) e di altre arti Chadō, via del thè, Shodō, via della calligrafia, Sōdō, via dell’incenso indica un legame molto stretto con il Buddismo, in particolare con lo Zen e le sue componenti taoiste e confuciane. Dō deriva da Dao la forza unificatrice che pervade il cosmo intero ed è al centro della religione taoista come evidenziato dal kanji Dō così intimamente legato al pensiero filosofico ed alla religiosità cinese, che “[…] possiamo distinguere una lettura confuciana secondo cui la Via è la conformità alle regole, l’adempimento degli opportuni riti sociali, e una lettura taoista, secondo la quale la Via è la ricerca dell’unione con il principio stesso del movimento universale […] le due linee di pensiero in realtà s’intrecciano […] (14).

 

Come dimostrato da Giangiorgio Pasqualotto (15) e dal maestro della scuola Ohara Mauro Graf (16) le regole, che applichiamo oggi nell’ikebana, sono di origine religiosa. La loro assimilazione è tuttavia insufficiente: se si vuole realizzare lo spirito profondo di un’arte tradizionale sono indispensabili l’apporto della creatività coniugata alla consapevolezza meditativa, la cui forza non si esaurisce in una crescita etica, ma conduce, in modo del tutto indipendente da qualsiasi forma di volontà, ad un’unione cosmica. (17)

 

Nel Buddismo, ed in particolare nello Zen, l’essere umano è il protagonista di un percorso etico che può essere realizzato in tutte le espressioni della sua personalità, come ha ben sintetizzato il monaco zen e maestro del giardino Masuno Shunmyō con l’affermazione “Qualsiasi luogo è Dōjō”(18): la meditazione non è soltanto una pratica formale riservata alla sala di meditazione dei monasteri e dei ritiri per laici o alla solitudine della propria casa, ma può e deve investire tutti gli aspetti della vita. La realizzazione di un ikebana diventa così un momento privilegiato per praticare; l’impegno in un’attività rilassante e gioiosa avviene, anche se in modo più limitato nel tempo e meno radicale, nelle medesime condizioni ambientali dei ritiri di meditazione: l’isolamento in uno spazio protetto e lontano dagli affanni della vita quotidiana. Si creano così le condizioni ideali per giungere a quel livello di consapevolezza che è di per sé fonte di crescita morale. L’osservazione del movimento della nostra mente con i pensieri, i ricordi, e le immagini che si susseguono, sorgono e svaniscono, in modo estremamente rapido e senza interruzione, ci fa entrare in contatto con la condizione dell’Io caratterizzata dalla relatività e dall’imperfezione; comincia a crollare il concetto di Io come un’entità che richiede continuamente la propria affermazione. Gli spazi in noi, saturati fino ad allora da pensieri e comportamenti, tesi alla continua salvaguardia di un Io irrigidito come un blocco di ghiaccio, (19) si liberano ed inizia ad emergere la natura vera dell’uomo, caratterizzata dalla bontà e dalla positività. Si attua quanto espresso dalla metafora del Buddismo Zen: nel cuore di ognuno c’è un diamante che deve solo essere ripulito affinché brilli in tutto il suo splendore. Queste potenzialità si realizzano ed esprimono nella gioia di vivere, nella serenità, nel distacco da se stessi e nella compassione che lenisce la sofferenza provocata dalle ferite della mente giudicante e dall’ineluttabilità della malattia e della morte.

 

Ognuno di noi con i suoi rapporti costituisce la società e ne determina le caratteristiche; la pratica dell’ikebana come Kadō assume così implicazioni che vanno ben oltre la trasformazione del singolo.

 

Il distacco da se stessi conduce alla modestia ed all’umiltà, qualità fondanti delle arti tradizionali giapponesi. Nella cultura attuale dei paesi occidentali, caratterizzata dalla massima espressione dell’individualismo, la modestia non è più una virtù. Il termine modesto ha perso le valenze positive e viene interpretato per lo più come sinonimo di mediocre e povero, eppure i comportamenti animati dalla modestia e dall’umiltà trasmettono, in tutti gli ambiti nei quali un individuo agisce, positività, serenità e fiducia nella vita. I rapporti con gli altri sono improntati al rispetto ed alla discrezione; la flessibilità sostituisce la durezza dell’attaccamento alle proprie opinioni, la benevolenza subentra alla lotta per la continua affermazione di se stessi a scapito della collettività.

 

Con la pratica del Kadō l’arte dell’ikebana diventa la fucina di un’arte di vivere che poggia su virtù morali indispensabili per l’equilibrio e la serenità dell’individuo e per trasformare la collettività in una fonte di forza e di aiuto per tutti.

 

 

 

 

Note

 

  1. Il teatro Kabuki e i tre generi del teatro classico giapponese: Nō, Ningyō-jōruri, teatro delle bambole, chiamato anche Bunraku, teatro dei burattini, e Kyogen, breve azione scenica di carattere farsesco.

  2. Cha no yu significa letteralmente Acqua calda per il the. La traduzione nelle principali lingue europee come Cerimonia del the (Ingl. Tea Ceremony, franc. Cérémonie du thé, ted. Teezeremonie) ha una sua giustificazione, sia perché rivolta a tutti, anche a coloro che non sanno quasi nulla della cultura giapponese e dello zen, sia perché nella stanzetta del the si svolge tutta una serie di atti rituali.

  3. Caratteri ideografici cinesi utilizzati nella lingua Giapponese, per ognuno dei quali sono possibili due letture una giapponese chiamata Kun e una cinese On.

  4. Non sono state elencate volutamente le arti marziali tradizionali Dentō bujutsu, perché non rientrano nelle arti del Dentōgeinō e, pur avendo in comune la trasmissione tutto insieme, richiedono una trattazione che esula in gran parte dai temi del presente articolo.

  5. Solo dopo l’apertura dei confini del Giappone gli insegnamenti di alcune arti iniziano ad essere accessibili a tutti grazie alle prime pubblicazioni. Herrigel, Gusty, Lo Zen e l’arte di disporre i fiori, SE Studio Editoriale, Milano, 1986, pagg. 42-45.

  6. I rapporti tra Buddismo e Scintoismo sono complessi: per alcuni aspetti sono avvenute sovrapposizioni e fusioni di tipo sincretico, tuttavia le due religioni restano distinte e praticate per lo più parallelamente con preti scintoisti, che officiano riti di passaggio dalla nascita all’età adulta, riti di purificazione e matrimoni, e monaci buddisti, che celebrano i funerali: “Secondo le statistiche dell’Agenzia [giapponese] per la Cultura, nel 1997 il Giappone contava 95.117.730 buddisti e 104.533.179 scintoisti su solo 127 milioni di abitanti” Bouisson, Jean-Marie, Storia del Giappone contemporaneo, Società editrice il Mulino, Bologna, 2003.

  7. Queste parole che incarnano lo spirito della Cerimonia del the sono attribuite a Yamanoue Sōji, allievo di Sen no Rikyu (1522-1591)

  8. Il concetto olistico di cuore-mente kokoro è presente anche nel Buddismo

  9. AAVV, Raku: una dinastia di ceramisti giapponesi, Torino, Allemandi, 1997. Erano utilizzati per definire la natura anche san, sen, sō, boku ovvero una combinazione dei termini delle due definizioni citate nel testo. Cfr. nota 18.

  10. Una delle tre maggiori scuole di ikebana sorta alla fine del XIX° secolo ad opera di Unshin Ohara.

  11. Soka, Ammirare l’ombra del verde, giugno 2012, pagg. 9 – 13. Oirase è un famoso parco nazionale nella regione di Aomori ed è rinomato sia per la bellezza della sua natura, sia perché frequentato dal poeta Basho (1644-94).

  12. Purtroppo quest’etica che ha fatto parte del patrimonio religioso e culturale dell’intero popolo giapponese fino a tutto il periodo Edo, con l’industrializzazione è stata abbandonata dai detentori del potere politico ed economico fino ad arrivare al recente disastro di Fukushima, l’ultimo e più grave di una serie di drammi ambientali come quelli di Minamata, i cui inizi risalgono al 1908, del fiume Agana, di Yokkaichi e di Toyama, per citare solo i casi più clamorosi.

  13. Un ikebana può essere realizzato con fiori, foglie, rami ed erbe. Il termine ikebana può designare anche una composizione di sole foglie, di soli rami o di sole erbe, quindi la parola Hana, abbinata a Ike indica qualsiasi tipo di vegetale, Ka è la lettura On del termine Hana. Mantengo tuttavia la traduzione del termine “Kadō” con “Via dei fiori” perchè è consolidata sia dall’uso, sia dal signficato fiore, nel linguaggio comune, della parola Hana/ka.

  14. Nagayama, Norio, Shodō.Lo stile libero, Casadei Libri Editore, Padova, 2005

  15. Pasqualotto, Giangiorgio, Estetica del vuoto, Arte e meditazione nelle culture d’Oriente, Venezia, Marsilio Editori, 2004

  16. Graf, Mauro sito www.maurokorangraf.ch

  17. Cito alcuni esempi della formazione nella meditazione di maestri giapponesi di arti tradizionali. Raku Kichizaemon XV, op. cit. alla nota 9, ha scritto una pagina fuori testo, inserita tra le fotografie delle tazze Raku, dalla quale emerge il rapporto intimo tra la meditazione e la sua creazione artistica, senza che l’autore usi mai il termine meditazione. Già all’inizio poche righe conducono il lettore nel cuore di uno stadio molto avanzato di meditazione personale. Il maestro del the della scuola Urasenke, Sen Soshitsu, XV, Chadō, Lo zen nell’arte del the, Promolibri, Torino, 1986 e la maestra d’ikebana delle scuole Ikenobo e Koryu, Ando Mei Keiko, Ikebana, Arte Zen, 2009, opera stampata in proprio, parlano della loro formazione nella meditazione Zen in un monastero.

  18. Dō (Via) jō (luogo), luogo per apprendere la Via. Con questo termine si designa solitamente la sala di meditazione nei monasteri.

 

Masui Sachimine, Testini Beatrice, San Sen Sou Moku, , Padova, Casadei, 2007

 

  1. 19. E’ un’immagine del Buddismo tibetano: la mente-cuore non lavorata dalla consapevolezza meditativa è rigida come un blocco di ghiaccio, che si scioglie grazie al fuoco dell’attenzione e assume le caratteristiche di adattabilità, fluidità e morbidezza dell’acqua.

 

 

 

Nell’articolo e nelle note i nomi giapponesi sono citati con il cognome che precede il nome.

 

Un ringraziamento alla mia amica Matsumoto Jun per le traduzioni e le preziose informazioni sui termini giapponesi.

 

 

 

Copyright: 2013 Maria Teresa Guglielmetti

 

Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo testo può essere riprodotta senza l’autorizzazione dell’autrice.

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54 evoluzione dell’ikebana nella lettura dei kanji

 leggere prima l’ articolo 50° sulla  lettura On oppure KUN dei kanji

 

Le composizioni ikebana sono “figlie del loro tempo” ossia rispecchiano la visione della vita dei loro autori nei vari periodi storici, visione che è più volte cambiata dai primi ikebana strutturati della fine del 1400 fino alle composizione dei giorni nostri.

L’evoluzione storica di queste composizioni, dal KUGE al TATEBANA al RIKKA allo SHōKA/SEIKA ( fino all’apparire della parola IKEBANA verso la fine del periodo Edo) è percettibile anche nel tipo di kanji utilizzato e della scelta fra la sua lettura On (cinese, colta) oppure Kun (giapponese, popolare): anche chi non parla giapponese può, vedendo i disegni dei kanji e il loro significato, capire questa evoluzione.

 

 

Il KUGE è considerato da alcuni autori un protoikebana; usato sugli altari buddhisti e inciso sulle pietre tombali, pur essendo composto da soli fiori e non avendo regole compositive (fatto che lo differenzia dai tatebana composti principalmente da rami sempreverde o rami con fiori a cui si aggiungono pochi fiori erbacei e da “primitive” regole compositive), i kanji con cui è scritto lo legano alle future forme di ikebana poiché i due kanji del suo nome sono.

 

KUGE

 

 

 

Il primo kanji KU significa OFFRIRE ed è letto nella lettura ON;

il secondo kanji KA,GE lettura ON e hana , lettura Kun, è formato dal radicale -erba-, che indica dei vegetali in genere, posto sopra il segno -fiore nella piena fioritura-; questo kanji, oltre al significato di -fiore- significa anche -ostentato- ed era usato per indicare  la Cina, probabilmente perché la Cina si considerava un paese in “piena fioritura culturale” superiore ad ogni altro paese, per poi passare ad indicare i cinesi in generale e quindi è un kanji importante.

 


Disegno dei -cinque oggetti sacri- posti in quello che diventerà il tokonoma e comprendenti l’incensiere, il porta candele e tre TATEBANA, nati nel periodo Ashikaga, nella prima metà del 1400 alla Corte degli shogun. vedi articoli 32°35° e 12°13°

 

Gli shogun Ashikaga introducono l’abitudine di esporre nei loro palazzi una triade di kakemono, all’inizio rappresentanti  Buddha al centro con due personaggi minori ai suoi lati, e pongono una triade di oggetti comprendente una decorazione “floreale” ai piedi del kakemono rappresentante Buddha chiamata TATEBANA.

 

 

nella figura alla nostra destra, i tre tatebana sono disegnati con fiori erbacei, ma i primi TATEBANA erano composti, come si vede nel disegno alla nostra sinistra, principalmente da vegetali Kimono (Yang) ossia rami sempreverde o fioriti a cui si associavano pochi fiori erbacei o erbe, vegetali Kusamono (Yin). vedi Art. 2° e 70°

 

 

tatebana preso da un trattato specifico sull’ikebana

 

Il nome TATEBANA è scritto con i seguenti kanji:

che sono letti nella lettura KUN.

 

Il kanji  OFFRIRE, visibile nel nome KUGE, è ora sostituito dal kanji STAR DIRITTO mentre il secondo kanji di KUGE è mantenuto, data la sua importanza nell’evidenziare un vegetale nella sua piena “bellezza”, ricordando che questo kanji significa pure “ostentato” e ” Cina”.

Quindi TATEBANA significa fiori (importanti per i suoi altri significati di -ostentato- e -Cina-) posti diritti e questi specifici kanji mettono in risalto la funzione simbolica e rappresentativa della composizione.

Dunque, anche se apparentemente non c’è nessun nesso speciale che lega i KUGE, semplice assemblaggio di fiori, alle future composizioni ikebana, il secondo kanji con cui è scritto KUGE ( letto KA oppure GE in lettura ON e hana in lettura KUN ), rimane nel nome TATEBANA, nome indicante la prima composizione strutturata; l’offerta dei fiori sull’altare di Buddha (KUGE) viene trasferita nelle dimore “laiche” dei palazzi degli Ashikaga e il suo nome (e funzione) da offerta di “fiori” (significato di KUGE) cambia a “fiori” diritti” (significato di TATEBANA) in onore di Buddha, non più sull’altare ma in ambito più laico:  il primo kanji con cui è scritto TATEBANA mette in evidenza l’importanza di chi fa l’offerta, ossia lo shogun e la classe dirigente dei samurai.

 

 

Nel periodo Azuchi/Momoyama ( ultimi cinquanta anni del 1500 ) il TATEBANA si evolve nel RIKKA.

Mentre nel TATEBANA esistevano poche regole codificate, l’importante era di mettere dei vegetali “diritti”, il RIKKA diventa una composizione molto codificata, con 9-11 rami principali, un lato yang e uno yin, di grandi dimensioni ed eseguito per “colpire, impressionare” con la loro elegante esuberanza, grandiosità: i vegetali usati, benché più mossi che nel tatebana, sono posti ancora in modo verticale, diritti e il nome RIKKA è la lettura ON degli stessi due kanji usati per il nome Tatebana.

Essendo la lettura ON, cinese e più colta rispetto alla lettura KUN, giapponese e popolare, se ne deduce che la composizione Rikka ha assunto maggiorè importanza rispetto al Tatebana.

 

Rikka

Dunque TATEBANA e RIKKA sono la lettura KUN e ON degli stessi due kanji e significano entrambi:

vegetali messi diritti

 

 

SEIKA

 

 

Nella prima parte del periodo Edo, in cui comincia ad emergere la ricca borghesia cittadina, il Rikka, troppo difficile da creare e basato su simboli cari alla nobiltà shogunale e imperiale ma ostici alla classe emergente dei mercanti-artigiani, viene semplificato mantenendo solo tre elementi principali ed è chiamato SEIKA da tutte le Scuole d’ikebana ma SHōKA solo dalla scuola Ikenobo ( nomi differenti poiché la disposizione dei tre elementi nello spazio è differente nelle due forme) vedi Art.24°

I maggiori fruitori dell’ikebana sono ora i ricchi mercanti che percepiscono la nuova composizione in modo differente rispetto all’ormai “sorpassato, non più di moda” Rikka per cui anche i kanji usati per descriverlo sono differenti dai kanji usati per i nomi Rikka/Tatebana, composizioni che continuano ad essere preferite dalla nobiltà shogunale e imperiale.

TATEBANA e specialmente RIKKA erano usati per stupire gli ospiti mentre i nomi SEIKA/SHōKA mostrano un nuovo e differente contatto con i vegetali usati: questi vengono percepiti “viventi”,  mentre nel Rikka era importante che questi fossero messi “diritti” e usati per impressionare.

 

 

Di conseguenza il “nuovo” kanji KA ha mantenuto il suono originale con la lettura On: KA e lettura KUN: hana ma è stato sostituito da un nuovo segno il quale, rispetto al precedente che evidenziava la bellezza di un fiore completamente aperto, mette ora in evidenza la transitorietà, il cambiamento.

 

IL kanji KA usato ora è composto dallo stesso radicale –erba– presente nel kanji di Rikka

ma il segno ad esso sottostante è passato dal segno mostrante un –fiore completamente aperto– al segno –cambiamento-

(uomo in piedi seguito da uomo seduto= uomo che invecchia= cambiamento)

Anche il kanji che nella lettura ON si legge SEI, SHō mostra una visione differente che non è più lo “star diritto e impressionare” del Rikka ma evidenzia il “dar vita, far vivere” i vegetali.

 

La lettura dei due kanji è ancora ON, come la lettura di Rikka.

 

Nella seconda metà del periodo Edo, le composizioni SEIKA/SHōKA sono eseguite ed apprezzate non solo dal gruppo (relativamente ristretto) dei ricchi commercianti e artigiani ma da un sempre crescente numero di cittadini, anche meno ricchi: l’aumento della sua popolarità porta a leggere i due kanji non più nella lettura (cinese e colta) On ma nella sua lettura (giapponese e popolare) Kun pronunciata ikebana; la scelta della lettura Kun IKEBANA rispetto alla sua lettura On SEIKA/SHōKA indica che il comporre dei vegetali, da arte praticata prima solo da piccoli gruppi ristretti ( nobiltà shogunale e imperiale col RIKKA, gruppi ristretti di ricchi cittadini col SEIKA/SHōKA ), si è esteso a buona parte della popolazione, anche femminile.

 

 

 

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53 dall’ikebana…. …….alla cucina… …alla tecnica fotografica

Con insistenza questo blog evidenzia il fatto che le regole compositive dell’ikebana non sono un’esclusiva di quest’arte ma fan parte della cultura tradizionale giapponese e sono regole comuni ad altre arti nate prima del periodo Edo quando il “pensiero dei tempi antichi” (kodaishisō), ossia la visione della vita basata su un sincretismo fra varie forme di  religiosità (principalmente shintoismo, buddhismo, taoismo, confucianesimo) e di “credenze popolari” (principalmente teoria dello yin-yang, feng-shui), era l’unico strumento per poter arrivare alla comprensione delle leggi che governano il cosmo.

I concetti del kodaishisō li ritroviamo espressi tramite simboli in tutte le forme di arte fino a metà del periodo Edo poi, man mano che l’occidentalizzazione prende piede, questo – pensiero dei tempi antichi- viene soppiantato dalla visione cartesiana occidentale.

Anche se -il pensiero dei tempi antichi- viene sostituito da altre visioni della vita, i suoi simboli, espressi nelle regole delle varie arti formatesi mentre questo era l’unico modo di comprenderla (ikebana, cerimonia del tè, cucina kaiseki, disposizione delle pietre nel giardino e degli oggetti nel tokonoma, bonsai ed altro) sono rimasti inalterati ed è interessante ritrovarli in questa fotografia apparsa in rete, elaborata al computer, di giovani monaci che si divertono con un pallone.

Le seguenti tre immagini, in apparenza, non hanno niente in comune:

 

 

 

nella priva vediamo un ikebana nello Stile Alto della scuola Ohara, nella seconda del cibo disposto secondo le regole della cucina kaiseki e nella terza una fotografia, elaborata al computer, di giovani monaci buddhisti..

 

 

La bellezza e la “forza” della fotografia dei giocatori risiede anche nel fatto che la disposizione dei ragazzi è basata sugli stessi principi estetici dell’ikebana e della composizione del cibo nel piatto tipico della cucina kaiseki ossia la

disposizione di tre elementi è basata sia sulla triade buddhista (vedi foto a sinistra e articoli 39°), per cui l’elemento principale dei tre è al centro e contornato a destra e sinistra da due elementi meno importanti,

 

 

e contemporaneamente sul concetto che i due elementi più importanti sono vicini poiché rappresentano il lato yang mentre il terzo elemento è più distanziato poiché rappresenta il lato yin della composizione (vedi articoli precedenti)

 

 

 

 

 

tre sassi rappresentanti il tai-ji con quello più grosso al centro, il secondo -meno voluminoso- alla sua destra e  ravvicinato mentre il terzo -il più piccolo- è alla sua sinistra e relativamente distaccato dai primi due poiché rappresenta il lato yin/debole in contrapposizione agli altri due che rappresentano il lato yang/forte.

 

 

 

 

La disposizione degli elementi in tutte e tre le composizioni riproduce la triade buddhista con l’elemento più importante al centro (shu, per l’ikebana – due tranci di pesce A per il piatto – giovane  più alto A con pallone) mentre al suo lato destro è messo il secondo elemento per importanza (fuku nell’ikebana, B nel piatto e fra i giocatori); shu/fuku e A/B sono più vicini fra di loro rispetto all’elemento più piccolo (kyaku nell’ikebana e C nel piatto e nei giocatori)

Nella foto dei ragazzi i tre gruppi di giocatori sono alla medesima distanza ma A e B risultano “più vicini” per il fatto che i giocatori sono rivolti verso il pallone e di conseguenza il gruppo B guarda verso A : questo li rende più uniti rispetto ai giocatori del gruppo C. Da evidenziare l’uso del numero dispari 5 (i numeri dispari -considerati yang- sono preferiti a quelli pari -ritenuti yin)

Kyaku e i gruppi C nel piatto e nei  giocatori sono più piccoli e più distanti poiché rappresentano il lato yin delle tre composizioni.

Nell’ikebana, shu e fuku sono vicini e dello stesso vegetale legno/yang rispetto a kyaku, fiore/yin e similmente nel piatto i cibi A e B sono vicini fra di loro rispetto al cibo C e sono “legati” dalla presenza delle foglie di felce che rendono A e B yang/forte rispetto al cibo C yin/debole.

Le tre immagini – ikebana, il cibo nel piatto e i cinque calciatori- sono  composizioni hongatte/di-destra (vedi art. 16° e 17°)

È affascinante costatare che l’assemblaggio degli elementi componenti la foto dei giovani monaci, opera premiata e di recentissima esecuzione (2014), usa esattamente gli stessi concetti che governano (fra le altre cose) l’ikebana e la disposizione del cibo nella cucina kaiseki: l’uso dei numeri dispari (yang, preferiti ai numeri pari yin) e la “bellezza” della foto mostra come le regole dispositive derivanti dal kodaishisō, pensiero dei tempi antichi, mantengano la loro validità anche ai giorni nostri.

 

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